Artist: White Ward
Title: “Love Exchange Failure”
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2019
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Ucraina
Tracklist:
1. “Love Exchange Failure”
2. “Poisonous Flowers Of Violence”
3. “Dead Heart Confession”
4. “Shelter”
5. “No Cure For Pain”
6. “Surfaces And Depths”
7. “Uncanny Delusions”
Un pianoforte distende nitide note in una lontananza soffusa richiamando l’oscurità soffocante di aree urbane che provocano il distacco emotivo dell’uomo dalla realtà, sottacendo in repressione spietata una tensione verso l’anima, verso la ricerca di un concetto stesso di anima che tuttavia non preveda l’esistenza di un dio o del peccato (si rimanda a G. Simmel nella sua affilata analisi “Le Metropoli E La Vita Dello Spirito”), verso l’anelito alla comprensione, ad un senso tipicamente umano che viene comunemente ricercato nell’amore, nella vicinanza.
È però un amore malato quello che narrano con estremo sgomento ed apprensione i White Ward, riempito di mancanza, privato di quel calore che le metropoli con la grande fredda distanza ed il sospetto reciproco inseriscono tra le anime contigue; privato di quello scambio che fallisce nel suo senso primo – un tentativo di trasfusione finito tragicamente, nella violenza espressiva, emotiva e finanche fisica.
Non troveremmo probabilmente Ibsen d’accordo, non proprio un individualista dal canto suo, per la sua nota avversione alla maledetta periferia che tarpa l’ambizione artistica e rende gli uomini piccoli nel profondo, e difatti la metafora dei fiori che non possono più crescere o dell’infanzia negata non sono un richiamo dei White Ward allo stato di natura: l’uomo rimane un palese animale sociale, ed è per questo che è castrato dallo svuotamento di valore relazionale che la modernità e gli stili di vita propriamente urbani hanno comportato. La solitudine di Strindberg, la figura baudelairiana del flaneur, la Dublino di Joyce – Babilonia e la sua Babele, Roma la Grande Meretrice, l’ambivalente Gerusalemme da celeste a tracotante; da che esiste il racconto, esistono città raccontate (o alla base di esso). Ma in musica?
Quanto l’ambiente circostante influenzi la vita dell’essere umano, la psiche di chi lo vive, e più in generale dell’essere vivente, è forse lapalissiano. Ma quanto, questa serie di luoghi sociali, mentali e non-luoghi, influenza ciò che confluisce in musica come pensiero espresso o inespresso?
Tantissimo, si direbbe, ascoltando “Love Exchange Failure” degli ucraini White Ward che, reduci dal successo pieno di un debutto dall’enorme freschezza e inventiva quale “Futility Report” fu nel 2017, erano chiamati ad approfondire, sviluppare o virare il corso per poter rimettere in mostra un innegabile talento e riproporre le qualità di un Black Metal tanto alieno al suo co-testo, così ricco di sfumature Dark (anche Ambient), Jazz (ieri specialmente nell’uso copioso del sassofono), Post-Punk ed elettronica sottile (flirt con linguaggi Trip-Hop, nella fattispecie) giustapposti con sorprendente maturità.
Le strade accennate non sono tuttavia sottoposte a scelta, bensì vengono fatte confluire, tutte e tre. Proprio il carattere di giustapposizione del debutto viene innanzitutto grandemente rivisto nel secondo disco, quello dell’estrema maturazione in scrittura del combo di Odessa (sfavorendo in evidente parte le ultime due sfumature tra quelle poc’anzi elencate): la già notturna vitalità Noir che permetteva ai White Ward di passare senza alcuno strattone tra mondi stilistici (e di genere) disparati sotto il solo segno delle sensazioni più oscure e deviate muta in un carattere blasé che, maggiormente osservatore col favore dell’esperienza, finisce per essere rischiarato da una luna la cui eclissi totale è senza fine, inglobando quegli stessi elementi (e a ben vedere qualcuno in più) in una formula che appare più omogenea seppur non meno ricca o variegata. Lo mostra benissimo già l’opener nonché title-track, sforzo di composizione titanica totalmente inedita che dall’alto dei suoi undici minuti di progressioni, crolli e cambi da capogiro svela una nuova e felicissima propensione della band a sperimentare sulla lunga durata (i pezzi superano quasi tutti, e spesso abbondantemente, i dieci minuti di timing – conseguentemente, quello complessivo finisce quasi per bucare l’ora e dieci) con risultati che si dimostrano, non uno escluso, di pura eccellenza.
Lo sguardo che parte dai marciapiedi, dalla sensibilità jazzistica oscura dei Bohren (non più il solo sassofono come elemento di stacco, oggi più presente e integrato che mai nel suono ad alzare nuovamente l’asticella per quanto riguarda il suo utilizzo nella musica Metal, ma in primo luogo le associazioni di pianoforte Noir e il batterismo eccelso nel ridursi preziosamente soffuso quando occorre), mostra volentieri l’osso al field recording urbano, all’uso acuto del campionamento per enfatizzare la sensazione di smarrimento che il disco trasmette nella sua interezza tra slanci d’inedito fuoco (la matrice Black Metal si fa più aggressiva, tirata, stringente, violenta nel sangue e incontrollata, le melodie meno disarmoniche), picchi di disperazione nera (i pesantissimi rallentamenti Post-Metal di “Uncanny Delusions” e del finale di “Dead Heart Confession”), varia suscettibilità Shoegaze nella costruzione di riff ronzanti, destrutturati ed ascendenti, di melodie riverberate e allungate (“Poisonous Flowers Of Violence”, la malinconica filosofia downtempo in “Surfaces And Depths”) e persino scelta delicatezza.
L’ironica, sardonica risultante di una tale avanguardistica integrazione è una squisita afasia, una paralisi totalitaria e totalizzante dettata dalla sovraesposizione sensoriale a cui il luogo urbano non lascia via di fuga e la cui continua stimolazione nervosa che ne consegue genera l’eccesso opposto – nessuna possibilità di azione concreta (“Shelter”, che forse eccessivamente lunga nella sua funzione di ponte necessita di una contestualizzazione al limite del drammatico per la minimizzazione di tempi che sfiora la Drone music), un grigiore che canta il freddo emotivo di una morte lenta dall’interno, perennemente alla mercé dello sguardo degli altri eppure mai osservati realmente da qualcuno, da una sporca voce maestra che per il dolore si de-umanizza (rispetto all’emotività del debutto, eccezione fatta per il calore dei tre ospiti disposti a parata nei tre brani conclusivi) a descrivere una privazione organolettica e sensoriale, uno svuotamento di empatia che crea interessantissimi paralleli con la teatrale bocca incomprensibile di beckettiana memoria, spezzata dalla fame spirituale in una bulimia cittadina che esplode nei cori del finale della fenomenale “No Cure For Pain” (o all’inizio del ciclopico brano finale, lodevole ed impossibile da non menzionare per il curioso quanto azzeccato richiamo alla timbrica di Dave Gahan).
Ma i White Ward propongono intelligenti un lotto di brani-universo che, al di sopra di una patina di resa incondizionata, in barba ad una bandiera bianca che sventola perentoria ad ammissione dell’incomprensibilità e dell’incertezza che regolano e disgregano i rapporti umani come fil rouge, restano bruciantemente viscerali, enormemente sentiti e passionali, persino tragici nel loro mettere in luce le ombre più fitte della mente umana svuotata dalla sfinente guerra semiotica relazionale, il cui picco è un finale di raffinatissima citazione al Ballet Mécanique, rivisto sotto le luci bianche di un manicomio, e il cui risultato complessivo si mostra di particolarità talmente alta che l’originalità come premio al valore risulta quasi, nel contesto, scontata e magnifica formalità. Non sorprende dunque che persino uno scoglio -che in altro luogo sarebbe cruciale- come quello di una tracklist in parte mal congegnata non riesca a scalfire l’estrema bontà del disco, non più di quanto un laccio particolarmente scivoloso possa rovinare una scarpa di ragguardevole fattura; non tanto da impedire quindi a qualche ascolto -comunque indispensabile per entrare nel lavoro in consapevolezza e profondità- di sistemare quello che a conti fatti, a fronte di una tale composizione (e non ultima una produzione di organico valore che si mostra all’ascolto in alta qualità – notevolissimo il tono schiacciante delle distorsioni), è quasi un risibile cruccio.
Parafrasando Edward Soja alla dovuta distanza, i White Ward realizzano in “Love Exchange Failure” un ambiziosissimo e allo stesso tempo incredibilmente intimo romanzo urbano in musica sperimentale, eclettica, che fa degli stili un’ampia faretra di mezzi per raggiungere la comune sensazione più caliginosa, privo di riferimenti geografici o topografici precisi perché graziato da valenza universale eppure categorico nell’avere la città non come sfondo bensì agente attivo -e forse silenzioso protagonista- di azioni umane inconcludenti o persino inesistenti. Una profonda riflessione sull’unità di tempo che si dilata mentre lo spazio resta invece circoscritto, perfettamente ed insopportabilmente materiale, sul locus che diviene demiurgo moderno per eccellenza, dove il male si fa concreto, l’immagine della colpevolezza originaria e della perenne vendetta del divino all’hybris umano: la maledizione di vivere costantemente e solo nella percezione dell’altro – ognuno a scagliare le proprie debolezze come arma, con il conseguente male che ci facciamo.
Perché in fondo la felicità di qualcuno è sempre il dolore di qualcun altro.
– Matteo “Theo” Damiani –